Si è svolta a Roma l’Assemblea Nazionale della Cooperazione Agroalimentare e della Pesca dell’Alleanza delle Cooperative Italiane presso l’Auditorium Antonianum che ha visto, tra gli altri, la partecipazione di Teresa Bellanova, Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Paola De Micheli, Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Mauro Lusetti, Presidente dell’Alleanza delle Cooperative Italiane, Maurizio Gardini e Giovanni Schiavone, Co-Presidentidell’Alleanza delle Cooperative italiane.
«Sosteniamo con decisione la richiesta di misure “azzeradazi” avanzata dal ministro Bellanova all’Europa per ridurre gli effetti sui nostri prodotti agroalimentari. No ai dazi, più diplomazia e accordi bilaterali. Dei 7,5 miliardi di dazi Usa, oltre il 7% graverà sui prodotti made in Italy. È un altro tarlo che ci penalizza, cosìcome già è pesante l’effetto dell’ItalianSounding che ha sfondato il tetto degli 80 miliardi di euro. Chiediamo, inoltre, di rafforzare la dotazione finanziaria per la promozione dei prodotti agroalimentari in paesi che presentano nuovi spazi di mercato e interesse per i nostri prodotti. Dall’agroalimentare arriverà un ulteriore +0,5% di PIL entro il 2022, quando raggiungeremo la quota dei 50 miliardi di export .È una grande chance di sviluppo per l’intera economia italiana» . Lo ha detto Giorgio Mercuri, presidente di Alleanza Cooperative Agroalimentare commentando il focus Censis – Alleanza Cooperative reso noto in occasione dell’Assemblea della cooperazione agroalimentare e della pesca. «L’Europa è il primo mercato del mondo e non può diventare il primo bersaglio. L’Europa – ha aggiunto Mercuri – in un momento in cui la globalizzazione è divenuta realtà, deve essere più vicina all’economia reale dei paesi membri. Occorre una politica che tuteli le produzioni europee e proietti le imprese in un mercato globale».
«Nel 2021 – ha proseguito Mercuri – la popolazione ricca sarà pari a 604 milioni in 30 nuovi mercati, 154 in più rispetto al 2015 e i 2/3 abiterà in Cina e India. In Cina l’export deve dribblare criticità nelle procedure di importazione, ma l’Italia è il primo fornitore di cioccolato e pasta, il secondo di olio d’oliva, acque minerali e vini frizzanti, il terzo per vini imbottigliati e caffè. È inoltre attesa una crescente domanda di formaggi italiani artigianali.In India l’incremento della domanda crea molti spazi per il Made in Italy. L’Italia è il terzo fornitore di vino in India, con una quota di mercato dell’11%. Di qui l’importanza di aumentare la dotazione finanziaria per la promozione».
«Crediamo fortemente nell’innovazione e nella sostenibilità. Tanto più funzionerà –ha precisato precisa Mercuri – se sarà una sostenibilità di filiera». Nei nuovi mercati i nuovi trend della domanda globale sono maggiormente orientati verso alimenti più sani. Questo spingerà i produttori verso soluzioni “circolari” che si tradurranno, ad esempio, nella riduzione dell’uso della plastica (specie quella monouso) e nella maggiore sostenibilità degli imballaggi (realizzati con materiali riciclati) (SaceSimest, 2019).L’analisi Global Consumer InsightSurvey di PwC, condotta su oltre 21.000 consumatori in 27 Paesi, mostra che i consumatori ricercano sempre più alternative salutari, naturali e sostenibili.
Sul versante della diversificazione, del minor consumo di acqua e di suolo, le aziende agricole italiane riescono a ottenere risultati molto significativi. Quelle che diversificano presentano ricavi per addetto di molto superiori a quelle che non diversificano: il vantaggio è superiore ai 30mila euro all’anno e la produzione per addetto supera gli 85 mila euro, contro i 52mila delle aziende che non diversificano. Anche nei confronti degli investimenti si evidenzia una maggiore propensione per chi diversifica: il 2,9% per addetto contro l’1,1% delle altre aziende.Quasi doppia è invece la quota di redditività sul valore aggiunto, mentre le esportazioni coprono il 6,1% del fatturato, contro il 4,3%.
È impensabile competere nello stesso mercato con regole diverse – ha detto Mercuri rispetto al lavoro nero e al sommerso – da un lato tante aziende che rispettano le regole dall’altro chi non lo fa». Sono 3,3 milioni gli occupati irregolari, riferibili all’intera economia italiana, 220 mila possono essere ricondotti alle attività agricole, della silvicoltura e della pesca. L’attenzione al fenomeno è giustificata non solo per le sue dimensioni assolute e relative, ma anche e soprattutto per la forte concorrenza sleale che esercita nei confronti dell’occupazione regolare del comparto: in tutti i diversi segmenti della produzione agroalimentare, i tassi di crescita del lavoro irregolare riflettono lo spiazzamento progressivo e il degrado che può portare la diffusione di condizioni lavorative non protette e non dignitose.
L’area di questa concorrenza sleale può essere mostrata attraverso l’incidenza dell’economia sommersa sul valore aggiunto del settore. In agricoltura la quota di sommerso raggiunge il 16,9% e tende a crescere nell’ultimo periodo (+0,5% fra il 2014 e il 2017), così come accade nella produzione di beni alimentari e di consumo (+0,4%, tab. 5). Tende invece a ridursi in settori particolarmente esposti al fenomeno del sommerso come il commercio in senso lato (-2,1%) o i servizi professionali (-7,6%), mentre continua a ampliarsi la quota di sommerso nel settore dei servizi alla persona che raggiunge il 36,9% nel 2017 con un aumento di oltre tre punti in tre anni.
Sostenibilità, innovazione, gestione della filiera. Passa da qui la sfida per riprogrammare il futuro della pesca italiana, chiamata a fare i conti con la diminuzione dei giorni di pesca, delle barche e degli occupati. “Per evitare che tra quindici anni sulle nostre tavole ci siano solo vongole del Pacifico e gamberi vietnamiti, con le nostre barche vuote e ferme in porto perché nessuno vuole fare più il pescatore, occorre un cambio di registro” ha affermato l’Alleanza Cooperative pesca in occasione dell’assemblea delle cooperative agroalimentari e della pesca.
“Il 75% della produzione ittica nazionale – ha spiegatp l’Alleanza- percorre meno di 25 chilometri dal momento dello sbarco a quello della vendita, lasciando all’import, soprattutto extra Ue, il compito di coprire la quasi totalità dell’offerta commerciale nella media e grande distribuzione, nella ristorazione collettiva. Delle oltre 90 specie pescate -prosegue l’Alleanza- solo una decina prendono un aereo per raggiungere il principale mercato ittico italiano, ovvero, Milano. Sono solo 6, dal tonno alle acciughe, passando per i fasolari e le vongole, quelle che riescono a varcare i confini nazionali. Pochi dati che rendono bene l’idea che qualcosa non va e va cambiato”.
Per la cooperazione, nessuna formula magica ma ingredienti concreti come le organizzazioni dei produttori, in grado di aggregare e organizzare una offerta ancora troppo frammentata. Le nuove tecnologie per facilitare la trasformazione dei prodotti ittici, e dare nuova vita e più valore commerciale ad un prodotto che per il 90% ora è destinato solo al mercato del fresco. E poi, un salto di qualità che viene chiesto agli operatori che non possono più solo essere pescatori ma devono diventare a tutti gli effetti imprenditori ittici, gestire la filiera invece di essere, spesso, l’anello più debole.
“Dalla guerra alla plastica, che vede i pescatori schierati in prima linea, alle opportunità di sviluppo legate alla blue economy, un aumento dell’interesse dei consumatori verso i prodotti ittici, in particolare quelli nazionali, mai come ora, l’attenzione verso il mare, il suo ecosistema e le attività economiche che ruotano attorno ad esso, è stato così forte nell’opinione pubblica. La pesca da tutto questo potrebbe trarre stimoli importanti. Il concetto che però deve passare è che la pesca non può vivere più solo di pesca”, ha sostenuto l’Alleanza.
Nel tracciare la rotta verso il futuro, per la cooperazione è strategico delineare i tratti della pesca del futuro. “Occorre investire in ricerca, nello specifico in uno studio socioeconomico, in grado di proiettarci più in là delle emergenze attuali e capire come intervenire per cambiare indirizzo. Solo così eviteremo che le marinerie italiane si trasformino in un museo del mare diffuso dove barche e pescatori siano solo la testimonianza di un passato glorioso ma senza più un futuro. Noi siamo pronti a sostenere questo cambio di passo”, ha concluso l’Alleanza.