Tra il 1966 e il 1967 Pier Paolo Pasolini girò tre pellicole, un lungometraggio e due cortometraggi, che videro come protagonista Totò, in quelli che furono gli ultimi ruoli nella sua carriera di attore e che rappresenterano un vero e proprio idillio poetico tra i due.
Il poeta e la maschera comica
Sono tre opere piuttosto atipiche, sia nella produzione di Pasolini che nella filmografia di Totò, il primo si concede infatti di indulgere in una ironia e una leggerezza quasi fiabesca che non si riscontrerà più nei suoi lavori, mentre il secondo, ormai anziano e sul viale del tramonto, regala alcune delle sue interpretazioni più complesse, mature e meno scanzonate.
Ma prima di vedere nel dettaglio le tre pellicole, come si creò il sodalizio tra il regista-poeta friulano e l’attore e comico napoletano? Il primo personaggio scomodo e portatore di scandali e polemiche in qualunque campo operasse, dalla letteratura alla poesia al cinema; il secondo maschera iconica da commedia dell’arte e amatissimo protagonista di film comici che sbancavano il botteghino.
E’ interessante notare come Pasolini, fatta eccezione per Anna Magnani in Mamma Roma e Orson Welles in La Ricotta, avesse sempre preferito utilizzare nei suoi film attori non professionisti, spesso presi direttamente dalle borgate sottoproletarie che raccontava, tra questi anche Ninetto Davoli, che in tutti e tre i film in questione di Totò sarà la spalla e il coprotagonista.
Per Pasolini era infatti una precisa scelta poetica e autoriale quella di dirigere attori non attori che potessero esprimere al meglio quella spontaneità e quella verità del mondo da cui provenivano che un vero attore avrebbe invece reso artificiosa e fasulla.
Nel caso di Totò però per Pasolini è diverso, il Principe infatti è visto dal regista friulano come un vero e proprio emblema artistico della cultura sottoproletaria, in particolare quella napoletana a cui Pasolini era affezionatissimo. In Totò lui vede un candore clownesco e favolistico, quasi un simbolo stesso di una tradizione culturale che rischia di essere inghiottita dall’avanzare della modernità del mondo borghese, e in questa funzione decide di utilizzarlo, cancellando tutti i tratti dell’uomo di mondo furbastro e maneggione che lo avevano caratterizzato in molte sue pellicole, e facendo una versione molto più simile ad un Chaplin- Charlot o un Buster Keaton, nel segno iconografico del vagabondo dignitoso e puro.
Una storia di prede e predatori
Primo dei tre film che compongono il sodalizio tra i due, Uccellacci e Uccellini viene inizialmente concepito come un film a episodi, ognuno dei quali avrebbe dovuto avere Totò come protagonista (la storia di un ammaestratore di aquile, quella di due fraticelli francescani incaricati di convertire i volatili e infine quella di un padre e un figlio alle prese con un corvo marxista e ciarliero), in fase di scrittura venne poi rimodellato e trasformato in una storia unica (la terza) nella quale viene inserito il secondo episodio, quello dei frati, come digressione narrativa, mentre il primo episodio viene eliminato.
La storia definita è così quella di Totò e Ninetto, vagabondi senza meta, che si imbattono in un corvo, intellettuale marxista “di prima della morte di Togliatti”, che racconta loro la parabola di Frate Ciccillo e Frate Ninetto (interpretati ovviamente dagli stessi due attori), incaricati da San Francesco di convertire falchi e passeri all’amore di Dio, che riescono nell’intento ma non riescono a impedire che i primi continuino a divorare i secondi.
Dopo un lungo peregrinare per le campagne, Totò e il figliolo, stanchi del continuo filosofeggiare moralizzante del corvo decidono di ucciderlo e mangiarselo.
Questa la trama del film, che al suo interno sviscera tuttavia l’argomento degli uccellacci e uccellini convertiti dai due frati, facendo diventare Totò e Ninetto sia gli uni che gli altri.
I due si recano infatti a minacciare di sfratto dei poveri affittuari di una casa ma loro stessi saranno poco dopo minacciati per alcuni debiti da pagare da parte di un ricco ingegnere, in una storia che come suggeriscono argutamente i titoli di coda cantati, come quelli di testa, da Domenico Mudugno, comincia continua e non ha mai fine, quella dei predatori e delle prede, degli sfruttatori e degli sfruttati, che spesso si ritrovano a vivere l’una e l’altra condizione.
Ma è anche un film che racconta l’inizio di una crisi, culturale politica e ideologica, ovvero di quel comunismo ideologico e per paradosso sacro, così forte e imponente negli anni nell’Italia post bellica che viene lentamente inghiottito da una società conformista, borghese e svuotata dal suo carico rivoluzionario. Immagine simbolo di questa crisi sono i funerali dello storico segretario del PCI Palmiro Togliatti, di cui Pasolini inserisce una sequenza contemplata con un gioco di montaggio da Totò e Ninetto.
E’ la crisi del marxismo ma soprattutto degli intellettuali marxisti, di cui Pasolini, pur estromesso dal Partito anni prima si sente totalmente parte. Quasi sul finire degli anni 60′ avverte che il mondo in cui si sta entrando non gli appartiene più, che anzi stanno divenendo figure sbiadite e noiose, pedanti e moraliste, proprio come il corvo, che nella sua arguta saggezza risulta fin troppo scocciante agli occhi dei due candidi personaggi, la cui vita non è spinta dall’ideologia e dall’ortodossia ma da puri bisogni fisiologici e carnali.
Il destino del corvo è quindi ovviamente quello di essere divorato dai suoi allievi, ma proprio in questo gesto brutale e ferocemente sarcastico, Pasolini aggiunge idealmente una nota di speranza. Mangiando il volatile filosofo è come se in fondo i due abbiano digerito la dottrina marxista da esso rappresentata, potendo così assimilare il meglio di lui e portarlo con sé in giro per il mondo.
Uccellacci e Uccellini è dunque una pittoresca fiaba che racconta, partendo da connotati ideologici la fine dell’ideologia, da parte di un poeta che interiormente ne ha sempre auspicato e sostenuto il rinnovamento in altre forme.
Come ebbe a dire lo stesso Pasolini, è un film in prosa ma con le caratteristiche della poesia e della favola, permeato di metafora e di ironia dove l’autore trova un vero e proprio sodalizio con i due interpreti protagonisti ai quali è legato da gioiose e felici affinità elettive.
Nel segno di Charlot
Neanche un anno dopo, nel lungometraggio collettivo Le Streghe, a cui partecipano ognuno con un cortometraggio anche Mauro Bolognini, Vittorio De Sica, Franco Rosi e Luchino Visconti, Pasolini realizza quello che all’apparenza potrebbe quasi sembrare una sorta di appendice a Uccellacci e Uccellini, ovvero La Terra vista dalla Luna.
Il tema è in realtà pregresso e deriva da un vecchio racconto del poeta-regista intitolato Il buro e la bura, che decide di adattare per le circostanze del lungometraggio, il cui tema di base è la condizione della Donna nella contemporaneità, interpretata in ogni segmento da Silvana Mangano.
La storia è questa, un padre e un figlio, dagli improbabili nomi di Ciancitato Miao e Baciù (ovviamente Totò e Ninetto Davoli) dopo il funerale della moglie del primo e madre del secondo vanno in cerca di una nuova figura femminile che possa rimpiazzare la defunta, le dopo vari tentativi incontrano Assuntina, una sordomuta dai capelli verdi, che sembra dotata di magiche virtù per i lavori domestici. I due decidono di organizzare una truffa inscenando un tentativo suicidio della donna per impietosire la folla a fare una colletta pur di fermarla, ma per un incidente Assuntina muore davvero. Quando però Ciancicato e Baciù tornano a casa la trovano in forma di spirito ancora intenta a fare i lavori e dopo un iniziale spavento decidono di tenerla con loro.
Lo stile utilizzato è ancora una volta quello della favola che ha per protagonisti una coppia stralunata di poveri diavoli nel segno di Charlot, ma come fa notare Pasolini stesso ci sono alcune evidenti differenze con Uccellacci e Uccellini, a cominciare dalla totale assenza di un tema ideologico. Nonostante abbia sempre considerato il precedente lungometraggio come la sua opera cinematografica più riuscita, Pasolini era in cerca di una formula che desse maggiore peso e spessore alla componente poetica e fiabesca, alla coppia Totò-Ninetto, l’uno simbolo incarnato della tradizione umana partenopea, l’altro volto gioviale e spensierato delle borgate romane.
La Terra vista dalla Luna è dunque la realizzazione di questa delicata visione che Pasolini cercava di estrapolare dai due attori, che immerge in una atmosfera surreale e colorata (al posto del precedente bianco e nero), accentuando con le bizzarre capigliature color ramo il lato poeticamente clownesco della coppia e attingendo alla tradizione ancestrale e popolare propria delle fiabe che conducono al messaggio-morale fine, mutuato dalla filosofia orientale ovvero “essere vivi o essere morti è la stessa cosa”
Burattini in Paradiso
L’idillio tra Pasolini e il Principe De Curtis sarebbe potuto durare ancora per anni se non fosse stato per altri impegni cinematografici del primo e per la dipartita del secondo.
Pasolini aveva in mente una serie di episodi comici con cui riempire un film intero con protagonista la maschera napoletana.
Da questo progetto che non vedrà mai la luce fa però in tempo a realizzare un unico cortometraggio che finirà nel film a episodi del 1967, Capriccio all’italiana, accanto a segmenti di Steno, Mario Monicelli, Mauro Bolognini, Pino Zac e Franco Rossi. Il corto pasoliniano si intitola Che cosa sono le nuvole? ed è forse la più alta espressione poetica della breve ma intensa collaborazione tra Pasolini e Totò, qui accompagnato oltre che dall’ormai rodato Ninetto Davoli anche da altri due perfette incarnazioni di poesia clownesca e popolare come Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.
La trama è incredibilmente semplice all’apparenza quanto complessa nella sfaccettature al suo interno, una rappresentazione dell’Otello in un baraccone dei burattini, dove le marionette sembrano avere vita ed emozioni proprie, e in cui il finale tragico di Shakespeare verrà sabotato dal pubblico che sopprimerà sdegnato Jago e Otello, destinandoli così ad essere buttati nell’immondizia.
Il primo dato interessante è la meta teatralità dell’operazione, in cui il pubblico assiste ad uno spettacolo a cui assiste un altro pubblico, accompagnato dal commento degli attori-marionette che lo interpretano, legati a doppio filo alla parte che recitano. A sottolineare questo aspetto c’è l’uso del quadro di Diego Velazquez Las Meninas, esempio lampante di rappresentazione a specchio, messo come locandina dello spettacolo nei titoli di testa. E’ curioso notare come altre opere del pittore spagnolo siano usate per i prossimi fittizi spettacoli in rassegna del teatrino, i cui titoli avrebbero dovuto essere quelli degli irrealizzati cortometraggi con Totò.
Otello-Ninetto è un burattino “appena nato”, candido, puro, fragile e innocente, felice ed emozionato per il semplice fatto di essere al mondo. Ben presto però subentrerà in lui la mesta delusione per la consapevolezza della sua parte nella recita. Il tradimento di Jago-Totò che lui considerava così amico e il sapere di dovere uccidere Desdemona sono un tormento che non riesce a spiegarsi, vorrebbe modificare le sorti del personaggio e della storia, ma è il Burattinaio a tirare i fili e non lui, la commedia (o meglio la tragedia) deve andare avanti. Jago stesso, confidente paterno per Otello fuori scena, è costretto ad andare avanti con i suoi intrighi malvagi, fino a quando non è il pubblico stesso ad insorgere e uccidere le due marionette, la cui fine era già stata presagita dal passare del monnezzaro, interpretato da Domenico Mudugno, traghettatore di anime dalla voce soave.
Tra la tristezza commossa degli altri burattini, Jago e Otello vengono portati alla discarica, e qui restano a contemplare la celestiale, eterea e sublime bellezza delle nuvole. Otello non le ha mai viste mentre Jago pur conoscendone il nome ne cerca la definizione.
Loro che hanno sempre vissuto nel buio del teatrino appesi al gancio di un soffitto senza cielo, ora possono finalmente assaporare, nel momento della loro dipartita, un assaggio di Paradiso.
E’ quella che Pasolini chiama “l’ideologia della morte” a guidare quest’ultimo piccolo capolavoro, ancora una volta una “favola” dal gusto picaresco e surreale, che sarà anche l’ultimo film interpretato da Totò, una storia di morte e rinascita, di uscita da un mondo fittizio e manovrato per entrare, non senza dolore, in quello vero, reale, meraviglioso, dove pur in mezzo ai rifiuti e la sporcizia si può osservare la poesia delle nuvole.
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