Con il termine Generazione X si intende solitamente quella specifica generazione nata a cavallo tra il 1963 e il 1981 ovvero tra il boom economico e la fine degli anni di piombo, la cui definizione, coniata in realtà negli anni 50′ dal fotografo Robert Capa e poi ripresa dal movimento punk, la designava in quanto generazione invisibile e inascoltata, impregnata da un forte senso di cinismo e pessimismo, cresciuta con la televisione commerciale, le prime forme di nuove tecnologie, il crollo delle ideologie politiche e più in generale il disincanto e la disillusione.
E’ in particolare dagli anni 90‘ in poi che questa nuova classe di adolescenti viene descritta in letteratura e nel cinema.
X Generation diventa prima il titolo di un libro di Douglas Coupland nel 1991 e in seguito il titolo di un film dello stesso anno diretto da Richard Linklater a cui faranno seguito pellicole come Slacker, Clerks e film di maggior successo come Fight Club o Trainspotting, tutte storie che, pur con accezioni e narrazioni diverse, raccontano di una generazione di “perdenti” molto spesso senza speranze o aspettative, in cui spiccano personaggi apatici, immersi in un’esistenza grigia e claustrofobica, indotti al nichilismo e all’autodistruzione.

Anche in Italia questo fenomeno adolescenziale si manifesta negli stessi anni, e anche qui il cinema e la letteratura provvedono a raccontarlo; forse l’opera che riesce ad analizzare in uno dei modi più riusciti e felici questo periodo storico proteso con guardinga disillusione verso il Terzo Millennio risponde al nome di Tutti giù per Terra, lungometraggio del 1997 diretto da Davide Ferrario.
Il primo precario della narrativa italiana
In realtà in origine Tutti giù per Terra nasce come romanzo, scritto da Giuseppe Culicchia, autore vicino alla cosiddetta Gioventù Cannibale, di cui facevano parte Enrico Brizzi e Niccolò Ammaniti, esponenti di quella nuova letteratura post moderna che omaggiando autori come Anthony Burgess e il più contemporaneo e conterraneo Pier Vittorio Tondelli, raccontano piccole epopee di giovani alle prese con la realtà quotidiana, con precisi riferimenti a base di cultura pop e underground, utilizzo di nuove forme narrative meta-linguistiche e di un umorismo spesso nero e grottesco.
Tutti giù per Terra è in particolare la storia di Walter Verra, definito dalla critica il primo precario della narrativa italiana. Studente di giurisprudenza per velleità, obiettore di coscienza per convenienza, timoroso nei confronti dell’altro sesso al punto di essere ancora vergine per scelta, in perenne conflitto con il padre e aspirante scrittore destinato a dover accettare il lavoro che più di ogni altro considera deleterio e castrante, il commesso.
l libro, uscito nel 1994, fu un piccolo successo e diventò ben presto un cult, opera ben rappresentativa del suo genere, caratterizzato da una scrittura frammentaria e episodica. Due anni dopo la sua uscita i diritti furono acquistati dal produttore Gianfranco Piccioli e la regia affidata a Davide Ferrario, che andò a sostituire Paolo Virzì, la cui sceneggiatura aveva scontentato produttore e autore, e che curiosamente nello stesso anno diresse un film per molti versi affine a quello di Ferrario, ovvero Ovosodo.
L’approccio di Ferrario, di vent’anni più grande di Culicchia, è proprio all’antitesi dal voler fare una storia prettamente generazionale, e forse è proprio questo che ha reso il film così fresco e spontaneo, contraddistinguendolo da altri titoli usciti all’epoca e anch’essi ispirati a romanzi contemporanei, come Jack Frusciante è uscito dal gruppo, il quale, soprattutto rivisto oggi, risulta fin troppo concepito a tavolino e aderente ad uno schema.
Walter dal libro al film
Ferrario, a differenza delle intenzioni iniziali di Virzì, decide di restare molto fedele allo stile del libro, conservandone la struttura frammentaria e non creando una vera e propria trama ma procedendo per piccoli episodi potenzialmente autoconclusivi, che vanno ad esplorare il vissuto di Walter e la sua grigia quotidianità: una immersione in un microcosmo di situazioni a metà tra il realistico e il surreale, in cui la voce narrante del protagonista, splendidamente interpretato da Valerio Mastandrea, ci prende per mano e ci fa familiarizzare ed entrare in sintonia con lui e con i suoi piccoli grandi problemi e facendo sentire lo spettatore sempre più dentro a quel “complotto” che stringe la vita di Walter e lo accerchia da ogni parte e di cui fanno parte senza continuità di sorta le macchine, le amiche eccentriche, le discoteche, l’università, i professori, il ministero, la famiglia, le insegnanti e chi più ne ha più ne metta.
Un complotto che si stringe
Walter, in qualunque luogo si trovi e con chiunque interagisca si sente a disagio e fuori posto. Ovunque trova impiegati pedanti, dirigenti odiosi, maestre psicopatiche, venditori porta a porta ostinati e colleghi malfidati che sembrano accomunati dal rendergli la vita un inferno.
Intorno a lui le cose accadono senza che lui ne riesca mai realmente a beneficiare o esserne reale protagonista, come invece accade al suo compagno di corso poeta e filosofo che si reinventa presto capo del movimento studentesco e che finirà inevitabilmente per passare il concorso per un lavoro al posto di Walter, pur avendo inserito le sue medesime risposte.
Walter è l’incarnazione perfetta del disagio, non solo giovanile ma universale, di fronte a pressioni e senso di responsabilità, del sentimento di non riuscire ad essere all’altezza nelle situazioni (nemmeno nudo di fronte ad una viziata e ricca ragazza che lo ha portato nella sua villa avrà lo stomaco di concedersi ad un rapporto sessuale), una condizione che è al centro della narrativa sulla X Generation, ma che Ferrario molto intelligentemente riesce a non lasciare unicamente sul binario ma a renderla un’esperienza genericamente più umana e condivisibile da chiunque veda il film.
Gli unici momenti in cui Walter si trova a proprio agio sono quando si trova con la sua adorata zia, che morirà a seguito di un incidente lasciandolo così senza neanche un punto di riferimento adulto, e durante la sua visita al campo rom, nel quale si trova anche la bella gitana con cui riuscirà nel finale, in modo piuttosto rocambolesco, a perdere la verginità.

Topi che guardano pipistrelli volare
Un cambiamento questo in controtendenza con il finale del romanzo, totalmente privo di ogni qualsivoglia speranza, e a cui si può associare un altro importante tradimento operato da Ferrario nei confronti di Culicchia, e che contribuisce ad una universale buona riuscita dell’opera, ed è il rapporto di Walter con il padre, interpretato dall’indimenticabile poeta contadino Carlo Monni, a cui il regista da una personalità burbera ma estremamente simpatetica con lo spettatore e nel finale anche con il figlio, con cui comprende, ricambiato, di avere molti più problemi in comune di quanto non credesse, nelle loro burrascose interazioni
Walter e il padre diventano così due facce della stessa medaglia, due “topi che sognano di volare guardando i pipistrelli” come dice un aneddoto raccontato dal ragazzo, due esponenti di generazioni diverse, cresciute con valori diversi ma che si ritrovano a far parte della stessa alienante e folle società, contro cui non possono fare altro che inveire aggrappandosi agli ultimi esili fili di speranza, facendo di due sconfitte una mezza vittoria.
Musica e stile
Il film è giocato molto su una realizzazione tecnica fortemente sperimentale, i cui rimandi più vicini soni Trainspotting di Danny Boyle ma anche il cinema made in Hong Kong di Wong Kar Wai, con inquadrature oblique, saturazioni dei colori, riprese simili ad un videoclip di MTV con panoramiche a schiaffo su cartelloni pubblicitari, rallentamenti e accelerazioni delle immagini (Ferrario si diverte fortemente a far diventare Torino, location delle riprese, una vera e propria protagonista del film stesso, esplorandola dal centro alla periferia) e soprattutto un sapiente uso della colonna sonora, targata CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti), a cui si affiancano altre band del panorama rock alternativo dell’epoca come Marlene Kuntz, Disciplinatha, Ustmamò e Africa Unite, che vanno a creare ancora di più una identificazione culturale di Walter il quale nel libro passava le giornate ascoltando Sex Pistols e Ramones mentre qui è costantemente “pedinato” dalla colonna sonora come se fosse un vero e proprio commento di un narratore fuori scena.

A questo proposito, i CSI assurgono ad essere così onnipresenti nella narrazione, che a loro è riservato un piccolo e simpatico cammeo come improbabile commissione d’esame che, neanche a dirlo, rimanderà al prossimo appello lo sfortunato Walter.
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